Scrivo anch’io, no tu no !
Ho fatto un esperimento: su un sito in formazione cercavano pubblicisti a titolo gratuito e io mi sono offerta volontaria dopo aver letto il taglio populista e l’italiano pecoreccio di collaboratori già presenti.
Voglio vedere nascosto l’effetto che fa …E per farlo ho scritto un articolo su un argomento che volevo trattare qui da un po’.
L’articolo qui.
Invece qui c’è uno dei greenwashing index che ho scoperto recentemente.
L’antidoto migliore, però, rimane quello di allenare il senso del ridicolo.
Postilla: l’articolo è ricomparso con la dicitura “admin” al posto dell’autore. Non so per quanto lo lasceranno stare, quindi lo copio qui sotto, per i puristi dello stile che hanno voglia di vedere se il Bellotti aveva ragione a dire che l’originale era più armonioso. Secondo me aveva ragione dal momento che il successivo è stato un pachwork attorno a stralci attaccati alla mia precaria memoria. In ogni caso, ecco qua:
Greenwashing, il nuovo volto della disonestà di mercato.
Il marketing non conosce ormai frontiera alcuna: se qualcosa fa tendenza è un peccato disdicevole non approfittarne elaborando una qualche teoria pubblicitaria avanguardistica ad hoc. E’ il caso del nuovissimo must del terzo millennio, l’attributo più cool e più fashion dell’estate: l’ecologicità, o presunta tale. Sì, il verde è di moda più che mai, ormai da una decina d’anni a questa parte le statistiche confermano un’invasione di questo colore a tutto campo: le aziende si convertono al solare per rendersi energeticamente autosifficienti, le famiglie comprano cibo biologico prodotto localmente per evitare di avere sorprese nel piatto, le dosi di carne precipitano a ritmo con la ricomparsa di aviaria e disfunzioni ormonali infantili, perfino le malate di make-up sono diventate fans dell’eco-bio ed avide lettrici di etichette zeppe di formule chimiche e le fashioniste, non da meno, preferiscono il cotone biologico.
Ebbene, ora che persino il premio Nobel per l’economia Paul Krugman ha ammesso che la rivoluzione verde conviene, gli strategic managers non possono più girarsi dall’altra parte sorseggiando caffè al ginseng con un vago senso di disgusto di fronte ad un fenomeno ormai massificato. Ecco quindi la ricetta diabolicamente perfetta, ovvero il nodo teorico del greenwashing: se i prodotti verdi vendono di più, facciamo finta che i prodotti inquinanti non siano poi così terribili, o che lo siano meno del previsto o, meglio ancora, che non lo siano più, assottigliamo le differenze, limiamo le spigolosità del cliente, oliamo i cardini del consumatore.
A questa brillante intuizione dobbiamo la cascata di pubblicità di autovetture a benzina che sparano fiori dal tubo di scappamento; detersivi gonfi di tensioattivi che però, grazie alla nuova confezione col tappo color smeraldo, non inquinano più; aziende multinazionali famose per delocalizzazione selvaggia e sfruttamento minorile che promuovono la linea equa e solidale palliativa; nonchè l’aberrazione linguistica portata allo stremo nell’uso pedissequo della parola “naturale”, un aggettivo vuoto e truffaldino per antonomasia: il petrolio è un elemento naturale, ma difficilmente lo vorrei inserito negli ingredienti di una crema per il viso, l’olio di palma è naturale ed impazza in tutti gli alimenti nonostante sia scientificamente cancerogeno.
Non si può, tuttavia, ignorare la presenza di un happy-ending davvero gratificante, lorsignori non hanno infatti tenuto conto di un elemento fondamentale della faccenda: la tipologia psicologica di tutti i soggetti che si sono negli anni convertiti al biologico, al rinnovabile, al biodegradabile, al kilometro zero. Queste persone, o meglio, questi consumatori, mal si collegano con le teorie neoliberiste di cui gli strateghi del marketing si sono cibati ancor prima di aver pronunciato la prima parola – che probabilmente è stata “Mercato” -e non perseguono “razionalmente” il proprio benessere in contrapposizione con quello degli altri, non si lasciano comprare da un prezzo ribassato, non dimenticano il volto oscuro di chi si propone come paladino dell’ambiente e, forse più banalmente, si ricordano ancora che dal tubo di scappamento di una macchina non escono certo margherite.
Tutti coloro i quali si arrogano il diritto di sfruttare il proprio spirito critico di fronte alla messa in scena del greenwashing non hanno nemmeno bisogno di consultare le liste smascheratrici presenti sul web: davanti all’insensatezza di queste patetiche azioni – pane per gli azionisti – ridono beati e li seppelliscono letteralmente tra risate e vernice acrilica color prato.